Pubblicato da Il Manifesto ad agosto 2010
La mattina prolungo il tempo del caffè, giro per la cucina, ne bevo un sorso alla finestra, uno davanti alla mail, in maglietta e mutande, senza lavarmi, senza pettinarmi, perché sono la cosa migliore della mia generazione. Poi a passi lenti, mi avvio verso l’università, andando tra gente dai pensieri comuni, dalla vista corta, che poco sa del grande burattinaio e del male che divora il mondo. Passo tra l’ignoranza della gente, e ne esco intonso, come Gesù tra i mercanti. Perché sono la cosa migliore della mia generazione.
Seguo qualche lezione all’università, ma raramente fino in fondo, raramente per intero. L’intero non mi interessa, mi basta iniziare un libro e l’ho letto, iniziare un corso e ho studiato storia contemporanea, iniziare un amore e so di cosa sto parlando. Il resto del tempo fumo illegalmente in spazi anomali e lungamente in spazi adibiti, parlo con amici nei cortili interni e sulle scale, leggo ciclostili e volantini, mi riunisco, dibatto, tengo d’occhio il mondo: ho idee, ho senso critico, ho voglia di scambiare e comunicare e riconoscermi. Ho due bar fra cui scegliere dove bere birra o pastis. Due bar dove sedere o stare in piedi, a mia discrezione. D’inverno dietro i vetri appannati, d’estate sotto i portici, mentre la città si muove sotto i miei occhi che decifrano a uno a uno i suoi ingranaggi. Perché la vita non ha segreti per le mente migliore di una generazione. La vita è evidente. Non ha anse, non ha discrepanze, non ha bisogno di essere percorsa, ma solo compresa.
Uscito dal bar mi avvio lungo i portici, uno sguardo ai negozi di dischi, uno ai vestiti usati. Il mio cuore s’innamora a ogni passo di una nuova schiena, uno stivaletto, uno sguardo. Sono la mente migliore della mia generazione. Sono un magnete. Saluto per nome i marocchini che vendono chincaglierie, cammino loro accanto, sorridendo alle loro pretese, a volte cedendo, un braccio sulla spalla. Sono loro fratello, sono loro sodale, sono loro padrone. Sono parte dell’Africa tutta e della sua sofferenza.
All’edicola compro il Manifesto e l’Unità, Il Fatto quotidiano. A casa dei miei trovo la Repubblica. Trovo l’Espresso. Trovo l’Internazionale. Trovo la signora delle pulizie. Sul divano mi faccio ancor più consapevole delle guerre del mondo e degli affari sporchi che le nutrono. Conosco gli ingranaggi del mercato. Sono la mente migliore della mia generazione. Non mi fermo alla superficie. So come opera la CIA. So chi sta dietro i dittatori Sudamericani. So cos’è un comitato d’affari. Ho letto Gomorra. Sono alto, ho spalle larghe. Sono cresciuto facendo nuoto.
Mio padre è giornalista, mia madre insegnante. Mio padre medico, mia madre impiegata. Mio padre è scrittore, mia madre pittrice. Mio padre sindacalista, mia madre psicologa. Mia madre è counselor, mio padre commerciante. Mia madre è equa, mio padre solidale. Mi hanno lasciato i miei spazi. Tempo per fare le mie esperienze. Sono cresciuto tra i libri, sono cresciuto tra i giornali e i Tg. Non ho passato i sabati nei centri commerciali. Non ho mangiato al McDonald.
Studio scienze politiche, studio lettere, studio cinema, faccio l’accademia, faccio fotografie, studio filosofia e fisica, mi sono preso una pausa, ho cambiato facoltà perché non assecondava le mie aspirazione, perché era troppo dura, non riuscivo a svegliarmi per frequentare, lavoricchio, collaboro con una rivista, ho un blog, sto cercando la mia strada. Sono la mente migliore della mia generazione.
Vivo con amici. Dividiamo un grande appartamento, una stanza per uno, siamo in quattro, uno dorme molto, uno è di Valencia, uno aspetta che gli crescano i capelli, poi c’è Tiziana che scrive poesie sulle pareti perché ha la poesia dentro e non si può trattenere. La prima impressione è che noi ci si fermi all’apparenza, per vie delle felpe, dei maglioni, delle camicie a scacchi, dei cappotti, delle scarpe, dei piercing, dei tatuaggi e dei capelli, ma non è così. Non siamo esteti. Non siamo in vendita e non ci vendiamo. Abbiamo un mondo dentro.
Facciamo cene in casa, ognuno porta qualcosa, improvvisiamo una pasta, ci sono amici di amici e parliamo di calcio, di Alvaro Vitali e di viaggi che si possano fare con poco, di amici che ci possono ospitare a Berlino, dove “fanno le loro cose” e si mantengono alla grande lavorando solo la mattina, di borse di studio e precariato e suoniamo, suoniamo e comunichiamo. Ci accoppiamo. Maneggiamo sentimenti, entusiasmi e sofferenze non durature. Soprattutto entusiasmi. Passiamo oltre.
Nel mio quartiere c’è una trattoria a poco, c’è un bar dove la birra costa un euro e cinquanta, c’è il kebabbaro, c’è un baretto con i tavolini sulla piazza. Ci sono parecchi pusher tra cui scegliere. Ho piantine di marjuana sul balcone. Un amico la coltiva in un terreno sabbioso appena fuori città. Un compagno d’università va in Turchia in macchina ogni sei mesi. Passa le frontiere distribuendo bottiglie di whisky. Fumo solo in casa, per rilassarmi. Fumo alle feste. Fumo all’università. Non mi cambia di una virgola. Non mi manca se non c’è. Sono la mente migliore della mia generazione. Sono il cavaliere, il padrone del mio maniero, non credo nella proprietà, non credo in Cristo né in San Francesco. Il martedì vado in un cinema resistente dove guardo documentari sulle guerriglie nel mondo. Ne esco pieno di coraggio. Poi vado al centro sociale a sentire un concerto. Non servono tessere per entrare, né biglietti, soltanto un cane che una volta faceva i combattimenti, ma che qualcuno ha rieducato. Faccio così la mia guerriglia e non perdo la tenerezza. Non mi tiro indietro e non vengo mai avanti. Ma sono pronto.
Ho una macchina Euro 1 che in città non può circolare. Vado in bici, vado a piedi, non faccio sport. Sarei potuto diventare un suonatore di violoncello, un giocatore di basket professionista e un virtuoso degli scacchi. Non mi interessava eccellere. Non amo la competizione. E poi c’era senz’altro qualcuno più bravo di me.
Torno a casa tardi. Sulla via del ritorno fraternizzo con i derelitti del mondo, con i borderline e le puttane. Non vado a letto con loro, mi fa paura quello che possono nascondere tra quelle gambe a furor di popolo. Come si laveranno tra uno e l’altro? Mi fanno paura i bassi istinti. Mi fa paura dove potrei arrivare. Cosa sarebbe davvero necessario fare. Mi fa paura l’idea di scendere così in basso da non poter più risalire. Ma più di tutto mi fa paura essere solo. Ritrovarmi come Gesù nel deserto, a tremare di freddo e cibarmi di locuste, solo contro le tentazioni, senza sapere se la voce che sento è quella del male o quella del nostro padre misericordioso. Per questo mi piace entrare in casa e trovare le briciole sul tavolo. Lo spagnolo che guarda la televisione. Tiziana che fa l’amore nella sua camera con il suo ragazzo che nei fine settimana sale da Siracusa.
Ho la mente migliore della mia generazione. La porto a vedere la Guzzanti, Travaglio, Santoro e gli altri lanciatori di coltelli. Mi piacciono le loro ragioni, le vene sul collo e gli schiocchi di frusta. Mi piace l’ironia, ma che la sua parabola sia corta e a senso unico, che la sua lama sia cieca e rapido il tempo del decesso. Che il viaggio della palla dal cannone al bersaglio non sia irto di pericoli e lastricato di dubbi. Perché non ho nulla da fare, ma nemmeno un briciolo di tempo per le sfumature.
Dai posti dove entro voglio uscire pensando le cose che pensavo quando sono entrato, ma più forte. Mi piace la forza centripeta che ci tiene schiacciati insieme, la nostra parte, stretti, vicini, che basti un sussurro per comunicare. La nostra parte si chiama “l’altra” ed è giusta. Siamo in parecchi, ma grazie a Dio, sempre un po’ meno di quelli che stanno dalla parte sbagliata. Occorre sedere sul piatto più leggero della bilancia per salire in alto.
Voglio assistere all’esecuzione, ma dietro al vetro. Non voglio sentire il condannato che peta, che suda, vedere i suoi figli piangere o scoprire quanto mi somiglia. Non può somigliare a me, che sono la mente migliore della mia generazione. Che so quanto sono marci i meccanismi del mondo. Com’è caduto Saddam e perché. Non può somigliare a mio padre, che lavora al sindacato da trent’anni, a Tiziana, che ha la poesia dentro e per questo non paga il tram, e nemmeno al pusher sotto casa. La bilancia ha due sole braccia. Il fiume due rive e il traghettatore gli occhi di bragia.
Ho trentadue anni. Ne ho vent’otto. Ne ho trenta. Ne ho trentacinque. Non faccio figli perché devo fare birre artigianali, conservare i miei capelli, mettere su un hamman, costruire l’arca della Santa Alleanza, “lavorare alle mie cose”, fare cinema, coltivare biologico, lavorare due mesi a Londra, fare una Factory, un viaggio di tre mesi in Argentina, la mia musica, il mio spazio, il mio tempo: esperienza, esperienza, esperienza e poi comunicare. Non faccio figli perché è troppo presto o troppo tardi. Li avrei fatti, ma quando mi sono deciso lei se n’era andata. Non ho ancora incontrato la persona giusta. Non credo nella coppia. Come si può pensare di mettere qualcuno in questo mondo! Il bambino sono io. Non potrei mantenerlo. Non è certo la mia più grande aspirazione. Con i miei orari!
Sono la mente migliore della mia generazione. Guadagno settecento euro al mese facendo il barista nei fine settimana. Facendo il cameriere pranzo e cena nei week end. Guadagno seicento euro al mese lavorando in un call center. Ho un part time all’Ikea. Restauro qualche mobile. Dipingo Madonne. Faccio gioielli in rame. Faccio i mercatini. Sgombero soffitte. Faccio la baby sitter e ho tempo per le mie cose. Faccio teatro. Suono in un complesso. Abbiamo fatto un cd. Faccio danza. Tengo un corso di yoga. Faccio massaggi. Scopo. Lavoro in un rifugio. Do qualche esame. Ho lasciato l’università, ma riprenderò più avanti. Cambierò facoltà. Ho la media del ventidue. Sono fuori corso da sei anni. Devo badare a me stesso. Tiro avanti con poco.
Ho risposto ad un annuncio “Cercasi apprendista piastrellista”. Ho risposto a un annuncio “Cercasi decoratore”. Un annuncio “Spurghi anche prima esperienza”. “Rifacimento manto stradale”. La sera prima gli amici mi hanno detto “Grande!”, mia madre al telefono mi ha detto “Mio Dio, ma sei sicuro?”. Mio padre “Stai attento a non farti male”, mio nonno “Non durerai”.
Mi sono alzato all’alba, ho lavorato fino alle sei, e così il giorno dopo, poi ho realizzato che si trattava di domani, dopodomani e dopodomani ancora, per mille euro. Noi che siamo le menti migliori della nostra generazione! Noi che siamo il vero proletariato. I nuovi schiavi della terra. Il proletariato delle due di notte, del circolo, del centro sociale e della rhumeria. Il proletariato che fa tardi parlando di sé, di come tutto va, ma non va, non va, non va, non va.
Grazie a Dio abbiamo genitori che integrano, nonne che ci danno buste con scritto “Al mio caro Francesco, al mio caro Andrea, alla mia cara Enrica”. Zie che muoiono lasciandoci porzioni di case al mare, lavatrici da portare al mercatino dell’usato, vecchie auto tenute come gioielli e storie, storie, storie, possibilmente di nonni partigiani o anche repubblichini. Basta che fossero da una parte e che ci fossero parecchio. Che vergogna avere un nonno tiepido contadino, un nonno incerto. Che fastidio un nonno azionista, meritocratico e filo inglese. Un nonno da non poter dire “è stato da una delle due parti”. Un nonno che bisogna spiegarlo a lungo.
Sono la mente migliore della mia generazione. Amo il paese dove vivo da quanto mi fa schifo. Amo la sua coperta corta, che lascia scoperta la loro testa e le mie caviglie. Loro che non vogliono lasciarci il posto e noi che non lo vogliamo. Loro che vogliono le poltrone e noi che stiamo bene in piedi. Ci hanno detto che abbiamo talento. Che abbiamo l’intelligenza per uscire dalla mediocrità e dall’ovvietà. Che faremo lavori interessanti perché lo meritiamo per nascita, censo e dinastia. Perché le magnifiche sorti sono sempre progressive. Ce lo hanno detto i professori, la mamma e il papà. “Non prendete la prima cosa che capita”. “Aspettate l’opportunità giusta”. “Non fate questo sbaglio”. “Non fate nessuno sbaglio”. “Non fate”.
Ci vuole una lunga rincorsa e noi la prendiamo tutta. Ci diano benzina, una tanica al giorno, e noi faremo girare i motori delle nostre ambizioni all’infinito. Le ipotesi rombano senza sosta nelle nostre stanze, sono un fragore costante, sono minacciose, sono imponenti, sono degne delle menti migliori di una generazione.
Qualcosa accadrà. Signore Nostro che sei nei cieli, salvaci dal bisogno di scegliere un lavoro, una casa, un’età, una donna, un figlio e un barbiere. E quando il diluvio verrà, puoi giurarci che, pur non credendo in te, noi saremo salvati. Perché siamo le menti migliori della tua creazione.